Care amiche ben ritrovate. Di recente un’amica mi ha fatto riflettere su una caratteristica, tutta femminile, che in effetti mi è capitato spessissimo di riscontrare soprattutto in ambienti a netta prevalenza rosa e che sinceramente non riesco proprio a capire. Le donne, o almeno una enorme percentuale di esse, pur intelligenti, sensibili, sveglie e capaci di grandissimi sacrifici personali per portare a termine un lavoro nella maniera migliore possibile, hanno una enorme difficoltà, ed anzi per la verità non riescono proprio, a digerire l’idea del “gioco di squadra”.
Ho visto centinaia di curricula nella mia vita professionale, e da quando ho modo di ricordare in ognuno di essi ho sempre trovato scritto a chiare lettere “capacità di lavoro in team”, o frasi analoghe, ma rarissimamente mi è capitato di vedere applicati nella realtà questi buoni propositi.
Al contrario, le donne hanno una fortissima, e per la maggior parte delle volte autodistruttiva tendenza alla competitività, al confronto serrato, alla svalutazione reciproca, anche sterile.
A onor del vero la strutturazione della nostra società certo non aiuta, abbiamo imparato dalle strategie di marketing, dalle emerite facoltà di pubbliche relazioni e dalle multinazionali che per ottenere migliori risultati sul lavoro è buona norma tenerli sulla corda i dipendenti, dar loro la prospettiva di un premio, di un contentino, piccolo e meglio se difficile da raggiungere, per ottenere uno sforzo comune che valga per l’azienda cento volte il biglietto vincente dell’unico cavallo che avrà corso più degli altri, magari rimanendo in piedi tra spintoni, sgambetti e scorrettezze varie. Giusto per dire le cose come stanno, fate schifo; e peraltro, lasciatemi esprimere un’opinione certamente ignorante ma credo di buonsenso, avete torto. Non c’è nulla di più motivante che sapere di appartenere a qualcosa, a una squadra, a un gruppo che lotta insieme per qualcosa di giusto, di vero, che vale la pena, qualcosa che vada oltre la conservazione del posto o il maledetto “bene dell’azienda”, che è un fantasma che non esiste. Le aziende sono le persone. Se no restano appartamenti vuoti e targhette sulla porta.
Ma sto divagando.
Tornando al mondo femminile, va detto che non c’è nemmeno molto bisogno di architettare una sottile trappola come questa per scatenare la competizione, perché in un ufficio pieno di donne questo meccanismo scatta più o meno naturalmente e addirittura non solo quando c’è un traguardo da raggiungere o un premio da ricevere, ma anche in quelle situazioni, tipiche ad esempio di alcuni impieghi pubblici, dove di premi di produttività non se ne parla neanche. In questi casi in particolare, ma vale un po’ per tutti gli ambienti, si crea il paradosso per cui la competitività si scatena su dettagli veramente insignificanti, (il vestito di quella, l’orario in cui va in pausa pranzo, le bagarre sul piano ferie ecc) creando stupide beghe da similcondominio fatte di alleanze temporanee, rovesciamenti di fronte repentini, sorrisini davanti e male parole alle spalle, che non servono a niente se non a creare, con il tempo, un ambiente veramente malsano e davvero poco vivibile, una bomba ad orologeria pronta a scoppiare in ogni momento e per qualsiasi stupidaggine.
Il tutto senza un minimo di senso, perché nessuno ci guadagna e tutti ci perdono.
La tendenza alla critica, alla maldicenza, alla parolina feroce dietro le spalle, sembra purtroppo una inclinazione innata e in qualche modo insita in una parte della natura femminile.
Devo dire che per quanto abbia guardato da vicino le donne ormai da qualche tempo, questo è un meccanismo il cui significato davvero mi sfugge. Perciò, lungi dal fornire risposte che non ho, posso solo farvi riflettere su un costume che non ha ragion d’essere, confidando come sempre nella vostra grande capacità autocritica.
Se vorrete condividere i vostri commenti e le vostre opinioni, sarò lieto di ascoltarvi, come sempre.
Buona settimana.
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20/1/2016